Marcus è scappato dalla dittatura del Gambia. Sognava di lavorare duramente e guadagnare il giusto. Invece il suo destino su due continenti è quello del lavoro schiavile. Prima in Libia, poi in Italia. È un rifugiato, dovrebbe essere protetto. Invece raccoglie arance da succo per pochi euro al giorno.
Il dittatore del Gambia, senza volerlo, ha praticamente evacuato il paese. Da anni la popolazione parte in massa per sfuggire a un regime tra i più duri dell’Africa. Dal 1994, anno del colpo di Stato, le violazioni non si contano.
Allora Yahya Jammeh aveva 29 anni e la passione del wrestling. In 22 anni di potere ha lasciato una lunga scia di cadaveri. Oggi combatte l’omosessualità “come fosse la malaria”, si fa ritrarre col corano in mano e afferma di aver trovato rimedi contro l’asma e l’Aids.
In Libia si dorme con le scarpe Capitolo primo
Marcus, lo chiameremo così, come tanti suoi connazionali ha deciso di lasciare il dittatore al suo destino di sangue. Il suo sogno non era l’Europa, ma la Libia.
“Mi hanno detto che in lì c’era lavoro ovunque, mentre la guerra era solo in zone circoscritte”. La prima notizia era vera, la seconda no.
“Sono quasi morto, mi hanno colpito con un’arma in testa. In Libia non c’è legge e c’è molta violenza soprattutto nei confronti dei neri”.
La guerra è ovunque, così come il razzismo. E anche sul piano del lavoro le cose non vanno bene. “I libici ti prendono per fare dei lavori ma alla fine non ti pagano, e se ti ribelli, ti puntano un’arma e ti minacciano”.
“In Libia dormi con le scarpe. Quando la polizia capisce che non hai i documenti possono fare irruzione in ogni momento. E in ogni momento devi essere pronto a scappare”
Tornare in Gambia è impossibile. L’unica via di fuga è l’Italia. “Tramite altri migranti africani, ho trovato contatti per fare il viaggio verso l’Europa, anche se non ho mai incontrato personalmente la persona a cui ho dato i soldi per venire qui.
Quando ti conducono verso le zone costiere per imbarcarti, non ti fanno neanche capire dove andrai veramente”.
L’Italia è Mineo Capitolo secondo
Il punto di arrivo è facile da indovinare. Marcus arriva a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Giorni ad aspettare, poi deve lasciare le impronte. Un gesto che lo costringerà a rimanere in Italia.
Lo portano a Mineo. Qui inizia una lunga attesa. Il Gambia è riconosciuto come un paese sotto dittatura. Arrivano migliaia di gambiani da anni. Ma ogni volta si inizia da zero. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione. Poche persone che decideranno del tuo destino.
I giorni passano sempre uguali. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. “Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati”, dice Marcus.
Tutti i migranti del Cara hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Negli ultimi anni, per avere una risposta passavano anche 24 mesi. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Non è stata predisposta una commissione all’interno, la più vicina è a Siracusa. Così, rispettare i termini di legge è impossibile.
Ecco come funziona il permesso di soggiorno
Che fare durante tutto questo tempo? La direttiva europea prevede che dopo sei mesi un richiedente asilo abbia un permesso temporaneo. In questo modo può lavorare regolarmente.
Eppure, in passato, spesso non veniva consegnato. Per ottenerlo bisognava fare ricorso, come hanno denunciato gli avvocati Asgi.
Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù. Mineo è un’isola in un mare di aranceti. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. Piccoli proprietari e grandi latifondi. Tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo.
“Lavoriamo dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio, ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro al giorno”
“Lavorano in condizioni schiavistiche” commenta Rocco Anzaldi (Flai Cgil), “i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto ma in questo modo è l’intera economia locale ad essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi”.
Le arance Capitolo terzo
“Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le 8. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata”.
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Foto Sara Farolfi © #FilieraSporca
“I rifugiati raccolgono le arance di scarto, quelle che la Grande distribuzione rifiuta”
I padroni dei campi di arance cercano manodopera a costo zero. Gente ricattabile, che non ha documenti o ha documenti precari. E che ha bisogno di soldi.
Video di Antonio Condorelli per Aria d'Estate/La7
Le condizioni di lavoro sono durissime. Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?
La filiera Ultimo capitolo
Accanto al Cara non ci sono soltanto i campi di arance. Ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo.
Tra le arance che finiscono nel normale circuito distribuitivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara?
“Diciamo che può essere una realtà”, dice il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente”.
Una precisazione è d’obbligo: la ricerca sul campo, e il tentativo di risalire la filiera che dal Cara di Mineo porta alla produzione di succhi, non vuole puntare il dito contro nessuna azienda. Quella che emerge però è la fotografia di una filiera estremamente frammentata in cui nessuno può essere certo delle condizioni di lavoro in cui la raccolta delle arance avviene.
Finché non ci sarà un’etichetta trasparente il dubbio rimarrà in piedi. Stiamo bevendo un’aranciata prodotta in condizioni schiavistiche anche da un rifugiato?
Fonti: questa storia è un'elaborazione tratta dal Rapporto #FilieraSporca 2016, a cui si aggiungono fonti da PerugiaToday- Nigrizia - Unhcr – La 7 – La Stampa – l’Espresso – terrelibere.org